Dopo un viaggio di circa sei ore, in un minivan che l’autista ha deciso di trasformare in una cella frigorifera con quattro ruote, arriviamo a Sapa, una località di montagna situata nel nord ovest del Vietnam. Ad ogni curva la vista sembra mozzare sempre di più il fiato: il panorama di terrazze di riso riempie a perdita d’occhio le ripide colline; per strada contadini che pedalano su biciclette decisamente sovraccariche di frutta e verdura si alternano a buoi e bufali d’acqua, il tutto tra le auto che sfrecciano tra i tornanti strombazzando all’impazzata.
Lo spettacolo naturale si interrompe poco dopo, una volta giunti nel centro di Sapa, dove una fitta rete di negozi e ristoranti si alterna alla miriade di Hotel di recente costruzione. Per un attimo ci sembra di essere tornati ad Hanoi!
Ebbene si, perché negli ultimi anni Sapa si è trasformata in un’importante meta turistica per gli escursionisti e gli amanti del trekking provenienti da ogni parte del mondo. La velocità con cui si realizzano nuove costruzioni è a dir poco impressionante; si lavora dalla mattina alla sera, dal lunedì alla domenica senza alcuna sosta e, manco a dirlo, senza il minimo rispetto per il paesaggio o per qualsivoglia norma di sicurezza.
Proviamo solo ad immaginare in cosa si trasformerà questo posto da qui a dieci anni. L’intuizione di soggiornare lontano dal centro della città si rivela vincente da subito; l’alloggio che abbiamo prenotato si trova infatti nella valle di Muong Hoa, a pochi passi dove vive il popolo H’Mong e non lontano dai vari villaggi che ospitano le oltre cinquanta minoranze etniche, tra cui i Thai, Dzao rossi e Taj, che ancora oggi popolano queste colline.
Trascorriamo la notte nel nostro bungalow affacciato sulle risaie della valle, lontani dal caos e dall’inquinamento del centro…la pace dei sensi.
E’ mattina, e la nostra guida, una ragazza di nome Su, appartenente al popolo H’Mong, viene a prenderci per dare inizio a quello che sarà un trekking della durata di circa sei ore attraverso i villaggi delle minoranze etniche.
Ciascuna minoranza ha la propria lingua e religione, ognuna di loro vive in piccole case a ridosso di risaie e campi coltivati da cui ricavano il necessario per vivere. Riusciamo a distinguere le varie etnie grazie ai loro abiti e in altri casi anche al modo in cui alcune delle donne indossano particolari orecchini che in parte le deformano il lobo. Grazie a Su che ci fa da interprete veniamo a conoscenza di tutta una serie di dettagli: dalla lavorazione e colorazione dei tessuti, al modo in cui il riso, la canapa, il cotone e il cardamomo vengono coltivati e raccolti, allo stile di vita basilare dei singoli abitanti che si cimenta nella produzione di splendidi vestiti finemente decorati.
L’acqua è un elemento fondamentale per le persone che abitano questi villaggi; scorre imperterrita dalla cima nebbiosa delle montagne per essere prima intrappolata dalle foreste di bambù e poi canalizzata dagli abitanti che con spartane ma efficaci tubazioni la distribuiscono ai villaggi in modo capillare.
L’intera giornata di trekking si rivela essere un vero e proprio tuffo nel passato, un entrare in contatto con la natura e con quella “filosofia dell’essenziale” che ormai tutti noi abbiamo perso da decenni. Impossibile non stabilire un contatto con le decine di bambini che si incontrano lungo il percorso: dalle prime ore dell’alba infatti i più piccoli si incamminano dai villaggi percorrendo chilometri di stradine per raggiungere gli itinerari più battuti dai turisti; il tutto con la speranza di riuscire a vendere una borsetta ricamata dai loro genitori, un braccialetto o una collanina. Ed è quando ti soffermi ad ammirare il sorriso spensierato di questi bambini che il tuo punto di vista sul mondo comincia a cambiare. A poco a poco ti rendi conto di quanto sia infelice il nostro modello di “ricerca della felicità” fatto di inutili oggetti; oggi desiderio irrefrenabile a cui non riusciamo a rinunciare e domani presenza ingombrante ricoperta di polvere.
Forse è per questo che sempre più spesso si sente parlare di un ritorno al minimalismo, al famoso “Less is More”. Forse un po’ alla volta stiamo cominciando a capire di quanto sia inutile drogarsi di quelle insignificanti ed effimere dosi di felicità che assumiamo acquistando continuamente centinaia di oggetti senza averne veramente bisogno, mettendo in secondo piano relazioni, esperienze ed emozioni.
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